I forzati della carriola

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Il carriolante – spiega il nostro protagonista – non era altro che un terrazziere che non aveva nessun altro mestiere specifico se non quello di smuovere la terra. Quando mancava del suo lavoro si arrabattava nei lavori stagionali agricoli. La sua condizione era sempre incerta, era la categoria di lavoratori destinata alla maggiore disoccu­pazione. I lavori di carriola trovavano la loro fonte nell’esecuzione di canali e nella loro manutenzione”.

È il racconto in prima persona di uno scarriolante a calarci nel vivo di queste pagine. Si chiamava Umberto Costanzelli ed era nato nel 1902 vicino al Panaro, “in una catapecchia umida e fredda”.

Maggiore di cinque figli, viveva con i genitori, braccianti agricoli, ed i nonni paterni. Scarriolante dal 1919, Costanzelli venne presto pro­mosso capo squadra. Come spiega lui stesso, questa responsabilità gli fu affidata per “l’impegno nell’applicare tanti piccoli accorgimen­ti atti a sfruttare il mestiere ottenendo maggior profitto con minore dispersione di energie”; ma anche per il suo temperamento di “uomo pacato e serio, non disgiunto da quel poco di istruzione acquisito superando la licenza elementare, che a quel tempo, per un operaio, non era poco”.

Negli anni ’20 e ’30 lavorò nelle grandi opere di bonifica intorno al Panaro e al Diversivo. Per questo, la sua storia è simile a quella di migliaia di persone che lavorarono per il Consorzio della Bonifica di Burana, Leo, Scoltenna e Panaro a partire dal 1892. Ma a lui, a diffe­renza di tanti altri anonimi scarriolanti che ricordiamo soltanto attra­verso le opere che hanno faticato a realizzare, possiamo restituire anche, in queste poche pagine, la dignità di un nome e di una iden­tità.

Lascio quindi alle parole di Costanzelli, scritte su alcuni fogli battuti a macchina, il compito di raccontare ciò che si intravede nelle foto di queste pagine; sperando tra l’altro di smentire un suo convincimento, che ho riportato a conclusione di questo articolo.

“Ho concorso al primo lavoro di carriola che avevo diciassette anni. Mio padre, per l’occasione, mi aveva fatto fare una carriola nuova. Era poco raffinata e mancava di quegli accorgimenti che avrebbero dovuto renderla più agevole. Per il risparmio di pochi soldi si era rivolto ad un artigiano dal quale non si sarebbe potuto pretendere di più, ma quei pochi soldi a me costarono tanta fatica in più. Era una carriola sulla quale il carico veniva mal distribuito, pesava più sulle braccia che non sulla ruota, e siccome poi era stata costruita con legno poco stagionato, a quelli vi si aggiunsero altri difetti. La ruota si sbilanciò in modo che nel suo andare faceva un continuo zig zag, ed uno dei braccioli si contorse in modo tale che per tenere il carico in equilibrio dovevo sbilanciarmi io, alzando una spalla più dell’al­tra. A quei difetti per molti anni vi supplii con la forza e la vigoria della mia giovinezza a tal punto da non avere mai ricevuto rimbrotti dai miei compagni di lavoro”.

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“Fra i lavori più impegnativi di carriola a cui ho partecipato va ricor­dato un ributto d’argine del Panaro. Era un lavoro per uomini effi­cienti, e questo non tanto per la fatica richiesta nello spingere in alto la carriola, quanto per le scorribande che vi erano da fare su e giù per l’argine. A questo scopo basterà tenere presente che la discesa ripida da farsi all’esterno con la carriola carica richiedeva già di per sé gambe solide, e non meno quando si invertiva marcia risalendo, tirandosi dietro la carriola. Arrivati poi alla sommità dell’argine per guadagnar tempo si piombava giù verso il basso verticalmente senza alcun ritegno. Era quella una ginnastica certo non adatta ai vecchi . Per evitare le ore più calde, il lavoro cominciava alle cinque del mat­tino. Alle sette e trenta si faceva colazione.

“I pasti dei carriolanti erano semplici e frugali, un po’ di pane e companatico accompagnato immancabilmente da cipolla; spesse volte il pane prima di noi aveva avuto la visita delle formiche, delle quali qualcuna ancora vi si annidava fra le crepe. Un bicchiere di vino avrebbe poi suggellato il tutto; questo veniva distribuito sul posto di lavoro da un rivenditore che si era assunto un tale compito. Anche il companatico per chi poteva difettare veniva venduto sul posto; que­sto essenzialmente era tradotto in formaggio da pasto, sardine salate e sott’olio, salumi, fichi secchi ed aranci. A quel tempo la povera gente non poteva permettersi di meglio, ed anche quando rincasava non era poco se poteva satollarsi con una minestra; ad un secondo non ci si pensava nemmeno”.

Il lavoro era sospeso alle undici e trenta, veniva ripreso alle quindici e trenta e terminava alle diciannove. “Dopo otto ore di tale ginnastica e con il caldo che invadeva l’ambiente, non c’era uomo, anche se giovane, che non ritornasse a casa stanco e smunto da sentire il biso­gno di un po’ di riposo”.

Il riassetto di terreni argillosi e poco permeabili come quelli della Bassa modenese richiedeva un duro lavoro di carriola, vanga e, qual­che volta, anche di piccone. Ma questo, per Costanzelli, non era nep­pure il peggio.

“Il fatto più sconcertante era che questi lavori erano sempre saltuari e di breve durata; ed anche quando era manifesta la loro necessità, gli amministratori della cosa pubblica erano sempre restii ad eseguirli. Spesse volte quelle esecuzioni venivano sollecitate dalle azioni di piazza dei braccianti stessi, ai quali dopo lunghi ed interminabili periodi di disoccupazione non restava altro mezzo a cui ricorrere, se non di scendere in piazza per chiedere a gran voce pane e lavoro. Solo allora, quelli, avrebbero preso una decisione e, come il medico prescrive al suo paziente inquieto e nervoso una pillola di calmante, quelli con l’esecuzione di quei lavoretti raggiungevano un duplice scopo; quello di placare l’ira di quella gente e nello stesso tempo di fare un lavoro utile”.

Del resto, conquistare e rendere coltivabili terre incolte e abbandona­te era uno dei principali obiettivi della politica agraria del Fascismo. Con la bonifica integrale si intendeva prosciugare gli acquitrini e irri­gare le zone aride, affiancandovi una vasta attività di costruzione di case, spianamento di strade ed estensione della rete dell’energia elet­trica. Ma questo piano – insieme alla “battaglia del grano”, altro caposaldo della politica agraria di Mussolini – è giudicato oggi dagli storici di limitata efficacia pratica.

Una parte delle opere realizzate sui terreni interessati dai consorzi di bonifica non potè essere pienamente sfruttata, poiché l’investimento effettivo fu pari a meno di un terzo della quota progettata. Ed è forse anche per questo motivo che, nel segnalare un’opera in territorio mirandolese, l’estensore del “Barnardon” del 1931 rimase un po’ scettico: “Adesa i sfondan al Diversiv con la speranza càg vegna l’acqua d’irrigar il nostri compagni, là sarev una bella cosa chi glà cavassan, e se par nostra dasgrazia in gla cavaran, sperem che al Sgnor al slà manda dal zèl”.

Costanzelli, che venne confermato capo squadra dei lavori di bonifi­ca anche dopo aver declinato l’invito di un gerarca fascista ad iscri­versi al partito, fu impegnato pure nell’espurgo del Diversivo.

‘‘Era quello un lavoro di manutenzione: si doveva livellarne il fondo con relativa spondinatura. In certe posizioni veniva intaccato per un paio di metri. Queste insenature racchiudevano in sé dell’acqua, che non era facile estrarre anche con pompe, data la loro difformità. Se si tien conto che questi lavori non potevano essere eseguiti in estate perché in quella sta­gione con detto fiume si dove­va provvedere all’irrigazione delle campagne ed alla mace­razione della canapa se ne può trarre un’idea delle difficoltà di esecuzione”.

“I lavori durarono un paio d’anni e vennero suddivisi in tanti lotti; per ogni tronco nel quale ci si metteva mano, l’ac­qua che non si riusciva ad estrarre veniva travasata nella stessa cava; non di meno ci restava fango ed acquitrino da rendere il lavoro molto disa­gevole. Per sostenere le carriole era di necessità usare un gran quantitativo di tavole di legno; con le stesse tavole venivano improntate anche le rampe, ciò nono­stante quell’espurgo mal si tratteneva sulla carriola cadendo così sulle stesse tavole e nello stesso tempo mettendo in difficoltà chi doveva camminarvi sopra. Per surrogare a quell’imbrattamento ed evitare così un maggiore scivolamento si ricorreva ai ripari spargen­dovi sopra sabbia o pula di frumento, ma anche quello era un rime­dio di scarsa efficacia, in quanto con le scarpe infangate dette scorie venivano asportate.

Dal fondo alla sommità dell’argine c’era un dislivello molto accen­tuato; affrontare quella salita con la carriola carica ed il passo mal­fermo era un compito arduo, bisognava affrontarla imprimendo il maggior sforzo sulle braccia, onde avere le gambe sciolte pronte a rifarsi per un eventuale scivolamento. Era un lavoro bestiale e fatico­so anche in periodi di buona stagione, figuriamoci nell’inverno con la stagione fredda e umida; a queste difficoltà va poi aggiunto il disa­gio nel quale ci venivamo a trovare quando sudati ci fermavamo per consumare il pasto o per riposare”.

Costanzelli scrisse le sue note negli anni ’70. Il processo di sostitu­zione del lavoro delle macchine a quello dell’uomo, che aveva vissu­to in prima persona, aveva lasciato in lui un segno profondo. Le sue conclusioni erano amare.

“Il lavoro del carriolante e tanti altri lavori manuali del passato ben presto verranno dimenticati, la loro visione verrà sepolta e le nuove generazioni non saranno neanche in grado di raffigurare le tribola­zioni di quella povera gente. Tali ricordi verranno sepolti con la mia generazione.

Ma sin tanto che io vivrò quello apparirà ai miei occhi con la schiena inarcata, curvo sotto il peso della sua carriola colma di terra, e lo vedrò arrancare a pie’ sospinto su per la salita pur di arrivare alla sommità dell’argine. Non appena arrivato lassù lo vedrò esplodere in un grande sospiro di sollievo per poi istintivamente volgere lo sguar­do in lontananza, come che dall’infinito avesse dovuto aspettarsi quel segno di riconoscimento per un vivere più dignitoso sempre negato dagli uomini”.

Fabio Montella

* Ringrazio l’amico Berto Ferraresi e il Circolo R6J6.

Tratto da: Fatti e Figure della Mirandola – Edizioni “Al Barnardon” Anno 2000

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One Response to I forzati della carriola

  1. Chiarotti Ubaldo says:

    A proposit di scariulent, am vin in ment me nunon, Ghelfi Aroldo, quel ad San flis che da baghett al m’iva cuntaa d’un schers che lù e i so cumpagn ad lavor da scariulador, ì’ivan fatt a un che al fava un po’ al sbruffon tulend in gir chiatar parchè i dgiva tutt che i sa stufava dimondi a portar su al carioli ad tera dal fond di canaii, e lù inveci come se gnint a fuss al sifulava cuntinuament….. Par farla curta cus’ai pinsaa, i g’à ligaa sota al travers di manag ad la so cariola, na sbara ad fer ad sirca ott – des kilo e st’imbambii l’è andaa aventi tuta la giurnada sensa mai vedar la sbara, sol che cla sira lè al na sifulava minga, l’era un po’ più sbatuu dal solit……!
    Ubaldo Chiarotti

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