Giovanni Pico – La Sorbona, pista di lancio

Commenti (0) Personaggi

The courtyard of the Sorbonne, vintage engraved illustration. Paris - Auguste VITU – 1890.

Ai tempi di Pico, frequentare Univer­sità come quelle di Padova, di Bo­logna, di Ferrara, era farsi delle buone ossa culturali, ma per “sfon­dare’’ ci volevano Parigi e la Sorbo­na. E Pico non perse tempo.

Vi arrivò nel 1485, a 22 anni, preceduto non da una fama culturale, che allo­ra non poteva ancora essersi diffusa, ma da una no­torietà mondana: era il principe di un piccolo Stato italiano, un genietto, ricco, anche bello. A Parigi ave­va inoltre amici autorevoli fra cui i fratelli Ganay, uno dei quali era il Cancelliere della Sorbona, di quella Università che in quel tempo era considerata la capi­tale della cultura teologica.

La Sorbona ha una storia singolare. La fondò Ro­berto de Sorbon intorno al 1257, nel Quartiere Lati­no, sulla riva sinistra della Senna. Lui era canonico,modesto filosofo e teologo, ma grande organizzatore culturale con lo spirito di benefattore. E aveva alle spalle un grande “sponsor”, Re Luigi IX, in persona, che poi divenne San Luigi.

Tornato dalle Crociate nel 1254, questo Re si die­de, forse per espiazione, a opere pie, e Roberto de Sorbon gli suggerì di concorrere a fondare un’impor­tante università per studenti laici in modo che la teo­logia non fosse monopolizzata, com’era, dai domeni­cani e dai francescani. I primi studenti, ospitati e mantenuti gratuitamente, furono all’inizio venti, ma salirono di numero via via che l’iniziativa si affermò. La strada in cui l’Università sorse era denominata Rue Coupe-Guelle (via dei tagliagola), nome disdicevole a cui fu sostituito presto quello del suo fondatore che si estese anche all’Università: rue de la Sorbonne – la Sorbonne.

Più che un’Università, la Sorbona fu un istituto – si direbbe oggi – di specializzazione teologica post-uni­versitaria e internazionale caratterizzato da grande li­bertà, dove gli studenti – si chiamavano “socii” – pote­vano restare molti anni, anche perché per ottenere il titolo di dottore ce ne volevano ben dieci.

I “Sorboniani” divennero così una vera comunità che doveva osservare un ordine rigoroso: tutti in re­fettorio all’ora dei pasti, partecipazione alle funzioni religiose, proibizione di uscire oltre una certa ora, esclusione delle donne anche come visitatrici, multe per le infrazioni. I “socii” potevano però avere un servizio privato e scegliersi gli insegnanti che preferi­vano. Nel 1290 la biblioteca disponeva già di 1017 volumi che, per allora, era un’immensità.

Giovanni Pico frequentò la Sorbona per un anno come ospite. Ma dire frequentò è poco. Si buttò a ca­pofitto in quelle dispute, definite “atti sorbonici”, che si tenevano ogni venerdì, dal sorgere al tramontare del sole, senza pause, senza mangiare e senza bere. Un relatore illustrava l’argomento che poi si doveva sostenere contro molti oppositori. Lo zio scriveva al nipote: “Giovano i dibattiti che si svolgono con ani­mo sereno, con famigliarità e a quattr’occhi, lonta­no da spettatori, mentre nuocciono, quelli che av­vengono in pubblico per far mostra di dottrina, per accattarsi il favore dei presenti e l’applauso degli ignoranti”. Ben detto, e sarebbe opportuno ripeterlo oggi agli organizzatori di certi dibattiti televisivi.

Dopo un anno circa di quel tirocinio, la fama di Pico si consolidò e gli suggerì di importare in Italia la formula sorboniana dei grandi dibattiti. Ma Roma non era Parigi.

Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Gianfrancesco

Autore: Jader Jacobelli

Editore : Laterza 

Anno – 1993

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *