Giovanni Pico – Fra Platone e Aristotele

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Il trasferimento da Padova a Firenze, che Giovanni decise nel 1484 quando aveva 21 anni, fu un passo culturale di grande ri­lievo. Era come trasferirsi dalla consuetudine con Aristotele a quella con Platone, dall’averroismo, che era l’interpretazione più attuale dell’aristotelismo, e che era impersonato da un gran­de maestro, l’ebreo di Creta Elia del Medigo, al neo-platonismo di un altro grande interprete, Marsilio Ficino.

Ma non era una scelta alternativa fra i due massi­mi filosofi greci quella di Pico. Era l’attuazione di un originale disegno filosofico che egli andava meditan­do da tempo: quello di conciliare Platone con Aristo­tele per approfondire, forte della lezione di entrambi, i problemi della conoscenza dell’uomo e quelli del rapporto dell’uomo con Dio.

Il Mirandola aveva rivelato quel disegno a Ficino due anni prima, a 19 anni, in una lettera in cui scrive­va: “Siccome tu e sapienti come te siete convinti che chi tenterà la sintesi delle dottrine platoniche e di quelle aristoteliche le penetrerà più profondamente e le giudicherà più consapevolmente, ho pensato di af­frontare tale compito confrontando, secondo le forze del mio ingegno, con assiduità e rigore, Platone con Aristotele e Aristotele con Platone (…). Non ho nessu­no, se non te, che mi può aiutare in questo campo, anche perché gli studi platonici, come altri studi profondi e prestigiosi, sono del tutto fuori moda per gli uomini del nostro tempo”.

Ficino, diplomaticamente, gli rispose: Gli aristo­telici studiano i principi che regolano la materia, mentre i platonici ci dicono quanto dobbiamo a Co­lui che ha regolato la natura secondo numeri, pesi e misure. Perciò se i primi ci rendono dotti, i secondi ci rendono anche sapienti e beati. Tu, dunque, caro mio Giovanni, continua felicemente come hai co­minciato”

Poiché nell’ intellighenzia del tempo il passaggio di Pico da Padova a Firenze destò un certo rumore, lui stesso volle spiegarne bene il senso agli amici più stimati, fra cui il padovano Ermolao Barbaro, umani­sta tra i più autorevoli ed eloquenti, che fu Patriarca di Aquileia e poi Cardinale di S. Marco a Venezia.

Riguardo ai miei studi – gli scrisse alla fine del 1484 – ti dirò che ho deviato un poco da Aristotele. Però non sono un transfuga, ma un esploratore. In Platone trovo due cose: un’eloquenza omerica che si eleva su ogni espressione prosaica, e una somiglian­za di pensiero con Aristotele straordinaria, specie se il confronto viene fatto da un punto di vista elevato. Infatti, se ci fermiamo alle parole non c’è nulla di più divergente fra i due, ma se si va al senso di quel­le parole ci accorgiamo che nulla vi è di più affine fra i loro pensieri”.

Barbaro gli rispose: “Nessuno meglio di te, che conosci le opere di entrambi e i commenti, può con­ciliare Platone con Aristotele”.

L’alternativa fra il platonismo e l’aristotelismo, fra la comparatio (confronto) e la concordia, era molto acuta in quegli anni, anche perché queste due esi­genze erano alimentate da preoccupazioni non sol­tanto filosofiche, ma anche politiche. C’era chi vede­va nel neo-platonismo la quinta colonna della propa­ganda musulmana, e nella concordia universale il sa­botaggio delle Crociate, mentre l’aristotelismo era un po’ la bandiera dell’Occidente contro l’Oriente. “Solo se si tengono ben ferme alcune date – osserva Garin – il 1439, Concilio di Firenze, e il 1453, caduta di Costantinopoli, diventano intellegibili le asprezze della ‘comparatio ’ fra platonismo e aristotelismo, prima, e le invocazioni appassionate della pax philosophica’ e della ‘concordia’, poi”.
Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Gianfrancesco

Autore: Jader Jacobelli

Edizioni Laterza – Anno 1993

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