Fonderia Ghisa – Gli anni ’50 – Capitolo settimo

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Gli anni ’50 rappresentano per il paese un periodo di grande industrializzazione, ma sono anche tempi in cui maturano le condizioni per scatenare terribili rappresaglie nei confronti del movimento sindacale, per muovere un attacco feroce a tutta una serie di con­venzioni, di diritti, di libertà, che la Resistenza prima, e il governo di unità nazionale poi, almeno fino al 1947, avevano contribuito ad af­fermare.

“L’uscita delle sinistre dal governo nel 1947 segnò la vittoria della tendenza liberistica in campo economico. La svolta avvenne in un momento nel quale l’inflazione era divenuta galoppante. La lenta ripresa dei ceti dominanti aveva già prodotto gravi danni: da un la­to la smobilitazione o il sabotaggio dei controlli sul mercato inter­no, tendenti ad impedire la speculazione, specie sui prodotti ali­mentari. Dall’altra il fatto che il credito veniva concesso a risanare la situazione monetaria e fiscale del paese.

La ratifica del Piano Marshall approfondì in modo irreparabile la

scissione fra le forze democratiche, sia sindacali che di partito. Questa frattura si univa a quella già avutasi in campo internaziona­le fra gli alleati nella guerra contro il nazifascismo.

La repressione era iniziata per tempo. Nel maggio 1947 la strage d Portella delle Ginestre era stato un vero e proprio simbolo delle nuove alleanze tra ceti dominanti e forze reazionarie della società italiana legate alla mafia e alla Dc.

La repressione colpisce a tutti i livelli la classe lavoratrice, nei rap­porti di lavoro e nella vita di fabbrica. Il padronato vuole essere di nuovo libero di licenziare quando e come vuole. Chiede e ottiene la fine del blocco dei licenziamenti .

L’unità sindacale nella Cgil, sottoposta ad ogni genere di pressio­ni, si rompe definitivamente nel 1948. I Consigli di gestione vengo­no emarginati dalle decisioni delle imprese.

La sinistra viene sconfitta alle elezioni politiche del 10 aprile 1948. Il padronato ne approfitta sul piano economico, per approfondire l’attacco. Esso viene portato al collocamento della manodopera ed a tutte le sedi nelle quali i lavoratori avevano acquistato un diritto di presenza e di interventi dopo la Liberazione.

I datori di lavoro, facilitati dalla politica dei governi di centro de­stra, e in forza del peso che l’industria man mano andava acquisen­do nel paese, reclamavano maggiori poteri, più larghe discreziona­lità; la speranza era quella di creare in Italia una situazione che avesse le caratteristiche ed assumesse come modello quello della società americana.

Gli operai dal canto loro erano impegnati da un lato a parare i colpi di questa avanzata padronale e, dov’era e quand’era possibile, a lottare per condizioni di lavoro e salariali che andassero meglio in­contro ai bisogni dei lavoratori.

Negli anni ’50: ”La crescita salariale non deriva da un esaurimento della disponibilità di manodopera – che, anzi, per quanto concerne quella non qualificata, avendo ancora l’agricoltura un’eccedenza di manodopera da collocare in attività extra-agricole, è, almeno po­tenzialmente, notevole – ma dall’aumento del costo della vita pro­vocato, oltre che dal grave sbilancio alimentare che il paese segna nel suo complesso, specie in taluni settori alimentari (carni, ortag­gi, pesci, uova, ecc.), dal caro-casa, dal caro-trasporti, dal caro- ospedale, ecc.: fenomeni di rincaro dovuti alla scarsezza dell’offer­ta di questi fondamentali servizi, rispetto all’enorme aumento della domanda registrata nei centri industriali. Insomma, proprio dove lo sviluppo fu più intenso, si verificò una crescente e grave insuffi­cienza dei servizi sociali e della pubblica amministrazione. Era grosso modo questa la situazione politica ed economica nella qua­le andavano maturando gli eventi del 1959.

Nel 1953 la nuova direzione Concari, Molinari, Soncini si associa alla Confindustria e ne segue da quel momento le strategie e gli in­dirizzi politici.

L’ing. Molinari, che è ancora socio e dirigente dell’azienda, giustifi­ca quella scelta dicendo che “Non era possibile dirigere l’azienda: volevano comandare loro (gli operai).

Nel 1954 viene fatto il primo sciopero per la vertenza sul congloba­mento: ”ln questa occasione per ottenere un miglioramento di lire 4 orarie fummo costretti (per la prima volta dopo la Liberazione) ad effettuare uno sciopero contro la direzione per questioni che prece­dentemente abbiamo sempre risolto con la trattativa.

Alcuni mesi dopo, dietro richiesta della direzione che stava metten­do in atto il progetto della nuova sede e richiedeva un tangibile contributo dai lavoratori alla costruzione della nuova fabbrica, i la­voratori rinunciano a 10-15 lire orarie del cottimo che avevano fino a quel tempo percepito.

Tre anni più tardi, nel 1957, i lavoratori per ottenere il rispetto degli accordi presi sulla restituzione a posteriori della parte di cottimo ri­nunciato furono di nuovo costretti a fare sciopero.

Come si può notare c’è una escalation della conflittualità interna alla fabbrica che non conosce precedenti.

Ciò si può far discendere in parte a tutta una serie di questioni spe­cifiche alla fabbrica, ma deve aver contribuito notevolmente la si­tuazione nazionale e il clima generale dei rapporti tra classe padro­nale e movimento operaio.

In questo clima di tensione e sfiducia, le posizioni tra lavoratori e direzione si distanziavano sempre più.

La direzione Concari, Molinari, Soncini decide di mettere al proprio posto un direttore generale (Pino Stebini) e dargli carta bianca nel­la conduzione tecnica e politica della fabbrica.

Era in pratica il tentativo di creare un clima di rapporti sindacali che corrispondesse alla situazione più generale che si era venuta a creare nel paese e nelle fabbriche, dopo la ripresa di una certa ag­gressività padronale nei confronti del movimento operaio, senza averne in prima persona la responsabilità.

Nel frattempo Concari va a dirigere a Modena un’altra fonderia, in cui era entrato in società lo stesso Molinari il quale nella stessa in­tervista insiste nel ritenere che “l’andata di Concari fu determinata dai maltrattamenti morali subiti a Mirandola e dalla irriconoscenza delle maestranze rispetto a ciò che aveva fatto per l’azienda.

I lavoratori dal canto loro sostengono invece la tesi del disegno preordinato per ridimensionare la forza, l’unità e la solidarietà di classe esistenti tra i lavoratori della Fonderia Ghisa che in quegli anni rappresentavano un sicuro punto di riferimento per il movi­mento operaio della bassa modenese.

Non è compito nostro sicuramente dare un giudizio sui fatti, nostro compito è quello di raccontarne la storia, di contribuire a farla co­noscere per ciò che essa ha rappresentato per Mirandola, e per fa­vorirne, se possibile, una lettura corretta e distaccata.

È una lotta, si dice, che ancora tiene aperte molte ferite che si sono a quel tempo prodotte. Ognuna delle parti: padroni, nuovi soci e la­voratori ritiene di aver avuto ragione, o almeno una grossa parte di ragione.

Dagli anni ’60 è prevalso sia tra i lavoratori (che avevano bisogno di creare la unità perduta) che tra la direzione (desiderosa di far di­menticare e di dimostrare la volontà di continuare su una strada di­versa) un atteggiamento di rimozione mentale dell’accaduto e di ta­cito accordo a non parlarne.

A distanza di 23 anni, da quel famoso 1959, il non parlarne, divente­rebbe colpa, oltre a costituire una incomprensibile parzialità sul piano del metodo dell’indagine storica.

Queste sono le ragioni per le quali all’interno della storia di questa fonderia un capitolo è dedicato a questa lotta, una lotta che non vi­de né vinti né vincitori, ma due contendenti stremati e spossati dal lungo braccio di ferro.

Tratto da : Il lavoro e la memoria – Fonderia Ghisa Mirandola 1935-1982

A cura di Vittorio Erlindo – Anno 1983

L’immagine è tratta dal libro “Amarcord Mirandola” di Quirino Mantovani

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